SE L’ACCUSA È INFONDATA, IL DATORE RISARCISCE IL DIPENDENTE INGIUSTAMENTE DENUNCIATO

Nel rapporto di lavoro, il ricorso alla denuncia penale da parte del datore nei confronti del dipendente costituisce un’arma che — se impiegata senza fondamento — può trasformarsi in causa di responsabilità civile. Quando l’accusa si rivela infondata e il lavoratore viene assolto o il procedimento archiviato, non è detto che chi ha promosso la denuncia resti immune dalle conseguenze.
Il quadro giuridico di riferimento affonda le radici nel principio generale dell’art. 2043 c.c., secondo cui chi arreca un danno ingiusto ad altri deve risarcirlo. Tuttavia, nella materia specifica delle denunce infondate, la giurisprudenza ha operato una distinzione stringente: la mera infondatezza non è sufficiente per imporre una responsabilità. Occorre che l’atto denunciatorio integri gli estremi della calunnia o manifesti una consapevolezza della insussistenza del fatto.
In particolare, l’ordinanza Cass. n. 5597/2015 afferma che la denuncia per reati perseguibili d’ufficio non comporta automaticamente un obbligo risarcitorio anche in caso di assoluzione, a meno che non emerga che la denuncia fosse “calunniosa” nel senso dell’ordinamento penale. In assenza di tale condanna o accertamento, l’azione del pubblico ministero si pone come autonomo e “interrompe” il nesso causale tra la denuncia e il danno che potrebbe derivarne.
Nel contesto lavorativo, ciò significa che il lavoratore che chiede il risarcimento ha l’onere di provare tre elementi: (i) l’esistenza di un danno effettivo; (ii) il nesso di causalità tra la denuncia e il danno; (iii) l’elemento soggettivo dell’azione del datore, ossia la consapevolezza dell’infondatezza o il dolo di chi ha denunciato. Se il dipendente non dimostra che il datore abbia agito con consapevolezza o colpa grave nel denunciare sapendo che l’accusa era priva di fondamento, la domanda risarcitoria può essere respinta.
Inoltre, il principio dell’intervento autonoma dell’azione penale è decisivo: una volta che il pubblico ministero assume autonome iniziative, queste possono escludere che il danno derivato sia ricollegabile direttamente al comportamento denunciatorio del datore.
Nonostante ciò, la linea giurisprudenziale consente, in casi ben delineati, che il datore di lavoro risponda verso il dipendente quanto meno per il danno alla reputazione, lesione della sfera psicologica o morale, o pregiudizi patrimoniali derivanti da una denuncia ingiustificata e dolosa. Tuttavia, la strada del risarcimento è percorribile solo se il lavoratore offre prova concreta della condotta calunniosa o, comunque, manifestamente consapevole dell’insussistenza dei fatti da parte del denunciante.
In sintesi: quando l’accusa promossa dal datore risulta infondata, il risarcimento al dipendente è possibile, ma non “automatico”. Occorre che l’atto denunciatori superi la soglia della mera infondatezza e assuma connotati di calunnia o dolo, come dicton l’ordinanza Cass. n. 5597/2015. Solo in tali condizioni il giudice potrà condannare il datore al risarcimento del danno subito.