WHISTLEBLOWING E LICENZIAMENTO: IL DATORE DEVE DIMOSTRARE CHE NON È RITORSIONE

Chi segnala illeciti tramite il canale whistleblowing è tutelato. Infatti, se il whistleblower viene licenziato poco dopo, si presume che il provvedimento sia ritorsivo. È il datore di lavoro a dover dimostrare il contrario. Lo conferma una recente sentenza del Tribunale di Milano, che rafforza la protezione per i lavoratori segnalanti.
In caso di licenziamento di un dipendente che ha effettuato una segnalazione tramite whistleblowing, il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare che il licenziamento non è una ritorsione. In altre parole, il datore deve provare che
esiste una giusta causa o un giustificato motivo per il licenziamento, e che tale motivo non è legato alla segnalazione del dipendente.
La normativa sul whistleblowing (Legge 179/2017) tutela i dipendenti che segnalano illeciti, sia nel settore pubblico che privato, da eventuali ritorsioni da parte del datore di lavoro. Questo significa che se un dipendente viene licenziato dopo aver fatto una segnalazione, il datore di lavoro deve dimostrare che il licenziamento non è una conseguenza della segnalazione stessa.
In pratica, c'è un'inversione dell'onere della prova. Invece di essere il dipendente a dover dimostrare che il licenziamento è ritorsivo, è il datore di lavoro che deve dimostrare che il licenziamento è stato motivato da ragioni oggettive e legittime, diverse dalla segnalazione.
Il datore di lavoro deve dimostrare:
L'esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo per il licenziamento, ad esempio inadempimento contrattuale, comportamenti illeciti del dipendente, ecc.
Che il motivo del licenziamento non è legato alla segnalazione del dipendente, ma a ragioni diverse e oggettivamente valide.

TOP