SENZA DELLE CLAUSOLE ELASTICHE SCRITTE, IL DATORE DI LAVORO CHE MODIFICA L’ORARIO DEL PART-TIME DEVE RISARCIRE IL DIPENDENTE

Laddove il datore di lavoro pretenda la prestazione in un diverso orario, comportando così un inevitabile disagio al lavoratore, questi ha diritto, oltre che al ripristino dell'orario precedente, anche ad un risarcimento.
Il ricorso cautelare ai sensi dell'articolo 700 c.p.c. è proposto da una lavoratrice che chiede al Tribunale di Como l'accertamento della violazione delle disposizioni in materia di orario di lavoro parziale e clausole elastiche (articoli 5 e 6 D.Lgs. n. 81/2015).
In sostanza era accaduto che inizialmente, la dipendente aveva un contratto full-time a tempo indeterminato e mansioni di addetta alla vendita. Poco dopo, il rapporto si trasformava in part-time a 20 ore settimanali, e dopo poco più di un anno, in seguito al trasferimento presso un altro punto vendita, ella concordava con la società un orario di lavoro articolato su due turni settimanali alternati, ad esclusione del lavoro domenicale.
Nel 2025, però, l'azienda modificava unilateralmente il suddetto orario di lavoro in tre turni settimanali alternati, di cui uno con lavoro domenicale, mettendo a dura prova la gestione degli impegni familiari a carico della dipendente, la quale era vedova e con due figli minori.
Per questo motivo, la donna si rivolge al Tribunale, lamentando l'illegittimità della modifica unilaterale del suo orario di lavoro poiché in contrasto con la normativa in materia di clausole elastiche, oltre ad asserire che la modifica poteva dirsi discriminatoria perché lesiva delle norme in materia di tutela delle lavoratrici madri.
Con l'Ordinanza n. 1996 del 7 luglio 2025, il Tribunale di Como accoglie il ricorso proposto dalla lavoratrice, posto che ella aveva adeguatamente provato la sussistenza del fumus boni iuris.
Ripercorrendo la normativa di interesse, il Tribunale richiama anzitutto l'articolo 5 D.Lgs. n. 81/2015 che, oltre a prevedere la forma scritta ad probationem per i contratti part-time, impone altresì che l'orario di lavoro sia puntualmente indicato con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno, evidenziando che tale indicazione si intende assolta anche tramite rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie definite. Tale disciplina può essere derogata solo attraverso la sottoscrizione delle clausole elastiche che permettono una variazione in aumento della prestazione ovvero la modifica della collocazione temporale. Con specifico riguardo alle clausole elastiche, esse possono essere disciplinare in primis dalla contrattazione collettiva e, solo in mancanza, dall'autonomia delle parti che devono però pattuirle per iscritto con il consenso del lavoratore, tenendo conto del termine di preavviso di almeno 2 giorni.
Con riguardo a tutti i suddetti elementi, manca la prova della loro sussistenza in capo al datore di lavoro.
La società resistente, infatti, non ha fornito alcuna dimostrazione della pattuizione per iscritto delle clausole, così come richiesto dal CCNL applicato, inficiandone la legittimità.
Come afferma la Corte di Cassazione (Cass. n. 25680/2014),
«le cosiddette clausole elastiche, che consentono al datore di lavoro di richiedere “a comando” la prestazione lavorativa dedotta in un contratto part-time, sono illegittime, atteso che l'esigenza della previa pattuizione bilaterale della riduzione di orario comporta – stante la ratio dell'art. 5 della legge 19 dicembre 1984, n. 863 - che, se le parti concordano un orario giornaliero inferiore a quello ordinario, ne va determinata anche la collocazione nell'arco della giornata, e che, se parimenti le parti convengono che l'attività lavorativa debba svolgersi solo in alcuni giorni della settimana o del mese, pure la distribuzione delle giornate lavorative deve essere previamente stabilita».
Si rivela quindi illegittima la modifica unilaterale dell'orario di lavoro, cui segue il ripristino dell'orario precedente formalizzato.
Infine, il Tribunale ha ritenuto sussistente anche il requisito del periculum in mora visto il grave e irreparabile pregiudizio per la ricorrente, vedova e madre, la quale non avendo alcun supporto familiare alle spalle, aveva dovuto rivolgersi a delle baby sitter e ai nonni anziani e con problemi di salute per la cura dei figli.
Per questa ragione, il Tribunale le riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale liquidato in via equitativa in misura pari al 25% della retribuzione mensile lorda percepita.
Tribunale di Como, sez. II Civile, ordinanza 7 luglio 2025, n. 1996

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