LICENZIAMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE: PRESUPPOSTI ED EFFETTI

Con la sentenza n. 416/2025, il Tribunale di Treviso è alle prese con il licenziamento di una lavoratrice per le gravi condotte poste in essere verso i colleghi, al punto da rendere intollerabile la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Oggetto del contenzioso è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato alla lavoratrice per la grave incompatibilità ambientale
venutasi a creare rispetto al personale aziendale a causa dei suoi atteggiamenti. Questi ultimi avrebbero infatti determinato il degenerare dei rapporti interpersonali e prodotto disfunzioni operative non più tollerabili e procrastinabili, consistenti sostanzialmente in tensioni verbali, continui litigi e insulti, circostanze che hanno indotto l’azienda ad adottare la decisione irreversibile.
Dal canto suo, la ricorrente lamentava la natura ritorsiva e discriminatoria del licenziamento, il quale sarebbe stato dettato piuttosto dalla sua provenienza. La donna infatti aveva origini brasiliane e asseriva di essere stata sempre trattata con diffidenza dal personale aziendale per via del suo accento e del temperamento esuberante.
Il Tribunale di Treviso, con la Sentenza n. 416 del 29 maggio 2025, si trova a dover definire i termini della questione, partendo dal presupposto che il licenziamento, come qualsiasi altro provvedimento o trattamento attuato dal datore di lavoro, assume natura discriminatoria quando è causalmente riconducibile a condizioni o prerogative soggettive e personali del lavoratore connesse all’appartenenza a un c.d. fattore di rischio, che può essere, ad esempio, l’appartenenza a una determinata religione, etnia o genere. La discriminazione opera quindi in termini oggettivi, legandosi al trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nei giudizi antidiscriminatori, peraltro, la giurisprudenza di legittimità si è
recentemente espressa in termini probatori, evidenziando che resta fermo in capo al lavoratore l’onere di fornire prova del fattore di rischio, oltre che del trattamento meno favorevole posto in essere nei suoi confronti rispetto a quello riservato agli altri lavoratori. In tale contesto, il lavoratore può limitarsi a fornire elementi di fatto che siano idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o condotte discriminatorie, spettando poi al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.
Alla luce di ciò, il Tribunale non ha riscontrato alcun elemento di fatto idoneo a comprovare la natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento, posto che la provenienza della ricorrente e il suo accento brasiliano non sono indici di per sé da soli idonei a fondare una presunzione di discriminazione basata su ragioni di razza; allo stesso modo, non emergono episodi o specifici elementi concretizzanti l’animus nocendi in capo al datore di lavoro, per cui l’onere suindicato non risulta essere stato assolto dal lavoratore.
Discorso diverso, invece, va fatto con riferimento alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo. In termini generali, il licenziamento legato all’incompatibilità ambientale deve essere corredato
•dalla prova che la condotta del lavoratore abbia minacciato e
minacci il regolare funzionamento dell’azienda, e
•dalla prova dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore per
rimediare alla disfunzione organizzativa.
In assenza di tali prove, non è possibile ritenere quindi sussistente il giustificato motivo oggettivo.
Con riferimento al caso in esame, le diverse condotte dolose della lavoratrice avrebbero creato una situazione di incompatibilità ambientale, ma non tanto come circostanza oggettiva, ma come diretta a definire le conseguenze della condotta attribuita alla stessa. Infatti, dalla prova testimoniale è emersa una situazione di particolare tensione tra la lavoratrice e una collega, ma non di più.
Non sembrano quindi sussistere i fatti e le esigenze poste a base dell’intimato licenziamento, il quale si rivela illegittimo per l’assenza di un giustificato motivo oggettivo alla base.
Il Tribunale di Treviso accerta di conseguenza l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento inflitto alla ricorrente e dichiara estinto il rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di un’indennità di importo pari a 9 mensilità in favore della lavoratrice.