CASSAZIONE: IL DIVERBIO SUL LAVORO PUÒ COSTARE IL POSTO, MA NON SEMPRE È GIUSTA CAUSA

La Suprema Corte torna a pronunciarsi su un tema ricorrente nelle aule di tribunale: il valore disciplinare dei litigi sul posto di lavoro. Con una recente sentenza, la Cassazione ha chiarito che il diverbio tra colleghi o tra dipendente e superiore non costituisce automaticamente giusta causa di licenziamento, ma va valutato nel contesto complessivo dei fatti.
Il principio ribadito dai giudici è che non ogni alterco è tale da compromettere in modo irreversibile il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore. Se il comportamento si limita a toni accesi, frasi sconvenienti o atteggiamenti polemici, può semmai legittimare l’applicazione di una sanzione conservativa, come il richiamo scritto o la sospensione. Diverso è il caso in cui l’episodio assuma particolare gravità: minacce, insulti gravi o atteggiamenti aggressivi possono invece giustificare l’allontanamento immediato.
La decisione richiama alla necessità di valutare con equilibrio le dinamiche interne alle aziende. Le tensioni possono verificarsi, soprattutto in ambienti di lavoro complessi o stressanti, ma non per questo devono automaticamente
tradursi in un provvedimento espulsivo. Il datore di lavoro è quindi chiamato a distinguere tra una condotta isolata, magari dettata dall’emotività, e un atteggiamento che mette in discussione la collaborazione futura.
Per i lavoratori, la pronuncia rappresenta un monito a mantenere sempre un comportamento corretto, evitando che le discussioni possano degenerare. Per le imprese, invece, un invito a calibrare le reazioni disciplinari, rispettando il principio di proporzionalità. In definitiva, la Cassazione riafferma che il confine tra sanzione e licenziamento non è rigido, ma deve essere tracciato caso per caso, alla luce della reale incidenza dell’episodio sul rapporto fiduciario.