LICENZIATA LA DIPENDENTE CHE ACCUSA INGIUSTAMENTE LA RESPONSABILE PER RICATTARLA

La finalità e le modalità della condotta della lavoratrice integrano infatti gli estremi della insubordinazione e della minaccia grave. La Corte d'Appello confermava la pronuncia resa in primo grado con la quale era stata respinta l'impugnazione del licenziamento intimato alla lavoratrice per via delle affermazioni da lei proferite contro la responsabile del punto vendita ove svolgeva attività di lavoro. Secondo i Giudici, infatti, tali affermazioni integravano gli estremi della insubordinazione e della minaccia grave e da sole configuravano gli estremi per la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.. Nello specifico era accaduto che la lavoratrice aveva fotografato con il proprio cellulare alcuni capi di abbigliamento maschile acquistati altrove di proprietà di una cliente che aveva chiesto il permesso di lasciarli in custodia presso il negozio, per poi affermare in presenza delle colleghe delle gravi accuse con intento ricattatorio verso la responsabile (come “ce l'ho in pugno, ho fotografato i capi da uomo e dico che li vende”). Contro la decisione dei Giudici di secondo grado, propone ricorso in Cassazione la lavoratrice. Con l’ordinanza n. 1686 del 16 gennaio 2024, i Giudici di legittimità rigettano il ricorso, affermando che la giusta causa del licenziamento è una nozione che la legge configura nelle vesti di disposizione a contenuto limitato, poiché delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in via interpretativa attraverso la valorizzazione di fattori esterni (relativi alla coscienza generale) e di principi richiamati dalla legge stessa. Ora, mentre la disapplicazione di tali specificazioni è deducibile in sede di legittimità, lo stesso non vale per l’accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni nonché della loro concreta attitudine a costituire una giusta causa di licenziamento, poiché ciò è compito del giudice di merito. È possibile infatti ricorrere alla Corte di Cassazione solo allorché la contestazione non sia limitata ad una censura generica e meramente contrappositiva, bensì contenga una specifica denuncia di incoerenza in relazione agli “standards” presenti nella realtà sociale. Ciò posto, con riferimento al caso in esame, gli Ermellini ravvisano che senza dubbio la Corte d’Appello ha applicato correttamente i suddetti principi, sussumendo i fatti contestati alla ricorrente negli estremi della minaccia grave e della insubordinazione. Inoltre, evidenziano i Giudici, la condotta della lavoratrice avrebbe già di per sé giustificato il licenziamento per giusta causa, in considerazione soprattutto della finalità e delle modalità con le quali le accuse gravi e infondate erano state mosse verso la responsabile, cioè con dichiarato intento ricattatorio. Inevitabile dunque il rigetto del ricorso.

TOP